In una società caratterizzata da continui e rapidi cambiamenti, è necessario riflettere a fondo sulle trasformazioni locali e globali per capire come accompagnare le persone e le realtà organizzate (imprese, istituzioni, parti sociali) a vivere con pienezza e senza timore le novità.
La quarta rivoluzione industriale rappresenta una grande opportunità, perché, oltre a rimettere al centro il tema dello sviluppo sostenibile del territorio, concentra particolare attenzione sul lavoro e sulla persona umana.
Sono molti gli analisti e gli studiosi che sottolineano come, nonostante le tecnologie sia il volano del cambiamento, il fattore umano rappresenti il vero fulcro per lo sviluppo dell’economia e del mondo del lavoro.
La tecnologia non deve spaventare l’uomo che lavora: deve essere sempre al suo servizio per aiutare il progresso materiale e spirituale della nostra società.
La persona umana, partecipando al processo del lavoro con le sue innate abilità naturali, da formare lungo tutto l’arco della vita, è in grado di plasmare e trasformare la realtà. Il lavoro pertanto, oltre a essere motore per lo sviluppo di ogni società economica, è anche un bene per la persona umana, perché favorisce l’espressione di sé, l’identità e la partecipazione alla vita sociale.
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L’evoluzione del lavoro (e della formazione)
Ma come cambia oggi il lavoro? Quali sono i profili professionali più presenti nelle imprese? Sono quelli che possiamo definire di “mente d’opera”, dove prevale l’aspetto intellettuale del lavoro, che si sposa con le abilità manuali: la dimensione cognitiva è applicata a un lavoro esecutivo e viceversa.
Questa tipologia di lavoro coinvolge in modo ampio tutte le professioni che necessitano di una formazione media: non lauree, ma in particolare qualifiche e diplomi.
Anche la formazione, quindi, deve adeguarsi a questo nuovo tipo di professionalità richiesta: sarà sempre meno necessario insegnare a costruire il “capolavoro”, ma sempre di più occorrerà capire come le competenze trasversali possano divenire di supporto alle competenze professionali.
Questa prospettiva mette in discussione il tradizionale approccio formativo perché, se risulta chiaro come addestrare le persone all’ottenimento di un prodotto a seguito di una “prestazione”, è molto meno chiaro capire come formare competenze cognitive, quali il problema solving, la creatività o la resilienza.
Proseguendo nell’approfondimento dei profili professionali presenti nelle imprese, dopo la mente d’opera, inizia a elevarsi il livello di qualifica e si passa all’operatore esperto, oppure alle professionalità sulle skill 4.0, che necessitano di un livello di formazione alta: tipicamente, la laurea.
Chiudono la classifica i profili con un lavoro ripetitivo, con un lavoro prevalentemente esecutivo con attrezzature tradizionali o scarsamente tecnologiche.
I nuovi mestieri e professioni
Il mutato contesto lavorativo porta a creare anche parole nuove per descrivere i lavori: mente d’opera prende così il posto di quella che un tempo chiamavamo “mano d’opera”.
Cambiano i paradigmi del lavoro e aumenta il grado di autonomia decisionale di lavoratori e lavoratrici: le tecnologie tendono a disintermediare le classi e le gerarchie e le culture professionali cambiano con lo stesso ritmo dei nuovi paradigmi.
Se nel Rinascimento il riferimento era l’Artigiano, nel Settecento erano i Liberi Professionisti, nel secolo scorso gli Operai erano i protagonisti della rivoluzione industriale, oggi, nell’impresa 4.0, è sempre più normale parlare di “Mestieri e Professioni Generaliste”.
Non esiste più una classe nella quale categorizzare questi lavoratori e lavoratrici. Per questo, il sociologo Daniele Marini nel suo ultimo libro parla dei “Fuori classe” (il Mulino, 2018): un termine che identifica coloro che, allo stesso tempo, hanno caratteristiche di alte competenze cognitive (fuoriclasse), ma che sono anche difficilmente riconducibili a una classe lavorativa (fuori classe).
Ciò sembrerebbe portare a un atteggiamento che “stacca” la persona dal lavoro e la rende sempre più un singolo all’interno del contesto lavorativo. Se si va però a indagare in modo approfondito come lavoratori e lavoratrici considerino il lavoro, emerge un dato molto positivo: i lavoratori (in particolare i più giovani) attribuiscono al lavoro una valenza di realizzazione personale e un percorso di crescita.
È da questo contesto che emergono due grandi sfide: il lavoro come sfida educativa; l’impresa come comunità educante.
Il lavoro come sfida educativa
Troppo spesso siamo stati abituati a pensare che i tempi della formazione e i quelli del lavoro fossero completamente distinti. Il cartello “sono uno studente, non sono un lavoratore” – esposto in una manifestazione studentesca contro l’alternanza scuola/lavoro – richiama proprio questo atteggiamento di separazione. La tendenza a ridurre il gap tra formazione e lavoro ha portato a pensare che il problema fosse l’avvicinamento di due mondi distanti, tra i quali era comunque necessario mantenere un confine ben evidenziato.
Oggi non si tratta più di avvicinare due mondi (formazione/professione), ma è di renderli sovrapponibili e intersecarli, affinché nella formazione sia possibile ritrovare elementi di impresa reali e nell’impresa sia possibile ritrovare elementi di formazione.
Il mondo del lavoro può assolvere anche al compito di azione educativa, se opportunamente accompagnato e supportato da tutti quei soggetti che storicamente si sono occupati dell’educazione, in particolare dei giovani.
Occorre far evolvere il pensiero formativo da un luogo fisico specifico dove viene formata la persona una volta per tutte a eco-sistemi educativi, in cui gli attori educativi e formativi (famiglie, scuole, centri di formazione professionale, parrocchie, associazioni) e le imprese – insieme – possano supportare costantemente le persone in un’alternanza formazione/lavoro lungo tutto l’arco della vita.
L’impresa come comunità educante
Le evoluzioni del lavoro evidenziano una sempre più elevata soggettività della professione: si è contemporaneamente piccoli imprenditori e dipendenti. Non si può però trascurare l’esigenza della persona di vivere il luogo di lavoro come la propria comunità di appartenenza: si è “soggetti”, individui, ma in modo solidale agli altri.
L’impresa può quindi trasformarsi in comunità educante se riesce a interpretare se stessa come un elemento fondativo della società.
Proprio in quest’ottica – e in un contesto di continui cambiamenti – la formazione e la crescita delle competenze (professionali, trasversali e personali) possono costituire la spina dorsale, il filo di conduttore, di un lavoro che avrà sempre meno punti di riferimento e sempre maggiori frammenti discontinui.
La formazione assume quindi una dimensione etica, che si affianca al valore stesso del lavoro, al punto da assumerne pari dignità.
L’Italia fondata sul lavoro (e sulla formazione)
Se nella Costituzione italiana viene sancito il diritto al lavoro per tutti i cittadini e le cittadine, ora è necessario far evolvere questo diritto in modo connesso e sovrapposto alla formazione, così che lavoro e formazione possano essere, assieme, un diritto/dovere per tutti i cittadine e le cittadine, per concorrere concretamente al progresso materiale e spirituale della società.
Marco Muzzarelli
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