È impossibile stabilire un momento unico di avvio del processo di affermazione dei diritti sociali, che avrebbe portato cinquant’anni fa all’istituzione dello Statuto dei Lavoratori con la Legge n°. 300/1970: “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”.
È indubbio che un seme fu gettato durante la Resistenza, lotta contro il nazifascismo e per la conquista dell’indipendenza, ma anche per la creazione di una società e di ordinamenti nuovi, al cui interno potessero trovare soluzione i problemi della partecipazione democratica, del lavoro e della salute di tutti e di ciascuno.
Analogamente, le basi per l’unificazione dei servizi di igiene pubblica e assistenza sanitaria – avvenuta nel 1978 con la creazione del Servizio Sanitario Nazionale – furono gettate nel settembre del 1945 quando, su incarico del Comitato di Liberazione del Veneto, una Commissione presieduta dal professor Augusto Giovanardi, igienista dell’università di Milano, presentò il primo Progetto di riforma dell’ordinamento sanitario in Italia (Augusto Giovanardi: La riforma Sanitaria del Cln del Veneto, Roma 1978).
Il percorso del cambiamento sociale e, nello specifico, delle lotte per la costruzione di una nuova concezione del lavoro e della salute – che non siano solo merce o affare e dotate di strutture di funzionamento basate sulla partecipazione – è lungo e disseminato di ostacoli sempre diversi, non sempre inattesi.
Un primo significativo sviluppo della legislazione del lavoro coincise con la Carta Costituzionale repubblicana, che alla visione corporativistica dello Stato fascista sostituì quella democratica e sociale, fondando la Repubblica sul lavoro (articolo 1).
Si aggiunse allora alla nuova stagione democratica una rinnovata concezione del diritto del lavoro, che in Italia affiancava al tradizionale obiettivo di tutela della parte debole – la lavoratrice e il lavoratore – anche la tutela della libertà e della dignità, secondo i principi costituzionali.
In realtà, l’attuazione di questi principi nei luoghi di lavoro tardò a realizzarsi. Successivamente alla promulgazione della Costituzione, l’evoluzione del diritto del lavoro fu più fortemente condizionata dallo sviluppo delle lotte operaie e sociali e dal mutamento delle condizioni sociali, economiche e politiche fino a che, tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, parte del movimento studentesco si integrò con le lotte operaie, mentre all’interno delle fabbriche si erano articolati e costituiti, in un’articolata serie di rivendicazioni, comitati di base, forme di contestazione e di rifiuto della politica e delle strutture gerarchiche tradizionali, comprese quelle del sindacato.
Fu quello un secondo momento della nostra storia di tensione sociale e culturale per l’attuazione dei diritti del lavoro. Nonostante i timori di scavalcamento, il sindacato vide come esito di questi movimenti un profondo rinnovamento delle politiche e delle strutture della propria organizzazione.
Nel nuovo corso vennero colti gli elementi più vitali del dettato costituzionale: l’unità, la ridistribuzione degli organi di potere e controllo all’interno dell’azienda, l’esigenza di una più reale democrazia di base e la spinta egualitaria per la riforma della società.
L’onda lunga del movimento del ’68 si concretizzò in quei pochi anni in un insieme di leggi riformatrici del nostro sistema Paese: l’accordo del 18 marzo 1969 tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria per l’abolizione delle zone/gabbie per i minimi salariali; la Legge 30 aprile 1969 n°. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale); la Legge 11 dicembre 1969 n°. 910 (Provvedimenti urgenti per l’Università) sulla liberalizzazione dell’accesso e dei piani di studio universitari; la Legge 20 maggio 1970 n°. 300 (Statuto dei Lavoratori); la Legge 1 dicembre 1970 n°. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio); la Legge 6 dicembre 1971 n°. 1044 (Piano quinquennale per l’istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato); la Legge 15 dicembre 1972 n°. 722 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza); l’istituzione dei permessi retribuiti per lavoratori per frequentare corsi per la licenza media (150 ore) il 19 aprile 1973. Fino ad arrivare, nel 1978, in pochi mesi, il 13 maggio all’approvazione della Legge Basaglia n°. 180/1978 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori), il 22 maggio della Legge n°. 194/1978, (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) e il 23 dicembre della Legge n°. 833/1978 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale).
Fu in questo contesto storico, nel solco del movimento sociale e culturale di quegli anni, che venne a maturazione lo Statuto dei Lavoratori, molte delle cui parti, prima ancora di essere fissate dalla legge, erano state conquistate all’interno delle aziende, con la conclusione dei contratti dell’autunno del 1969.
Non va poi dimenticato che una parte non trascurabile del mondo imprenditoriale diede un contributo, sia pure su un piano diverso e con opposte motivazioni, a queste realizzazioni. L’industria più avanzata, pur opponendo resistenze, non guardava solo con sfavore alla nuova realtà che andava nascendo, nell’illusione di un nuovo tipo di relazioni industriali che garantisse, pur nella conflittualità dei rapporti, l’ordine e la pace sociale.
L’approvazione dello Statuto dei Lavoratori fu comunque uno strumento legislativo rivoluzionario: una sintesi di tutte le rivendicazioni operaie che si erano fino ad allora manifestate e un documento diversissimo da tutta la legislazione preesistente, in cui trovavano applicazione molti degli obiettivi perseguiti, ma solo parzialmente conseguiti dalle lotte precedenti.
Si cominciò a lottare contro le gabbie salariali, poi per la parificazione dei diritti fra operai e impiegati, per il diritto alle assemblee retribuite, alle rappresentanze sindacali, al delegato di reparto: tutte iniziative che permisero lo svilupparsi in azienda – e poi anche fuori dell’azienda – di possibilità di dialettica ed elaborazione collettiva dei problemi sociali e ambientali, oltre che lavorativi.
Luigi Mara, fondatore di Medicina Democratica, in un numero della rivista dedicato a “La magistratura e il futuro del diritto del lavoro” (Diritto al lavoro e diritto alla salute: evoluzione e regressione. Il contributo di Romano Canosa, Medicina Democratica 207, 2013, p. 51) ha ricordato che, con lo Statuto dei Lavoratori, per la prima volta si è avuto un intervento legislativo di una certa ampiezza che ha investito non solo le vicende del rapporto di lavoro esterne al processo produttivo, ma, entro certi limiti, anche quelle interne. Infatti, l’articolo 9 dello Statuto prevede che i lavoratori, mediante loro rappresentanze, abbiano il diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Fu un passaggio importantissimo, perché questo tipo di controllo fino ad allora era sempre stato affidato esclusivamente e con visione paternalista a organi burocratici, imparziali solo in teoria. La norma così introdotta rappresentò una rottura del sistema vigente, fondamentale per dare spazio e affermare pienamente il diritto alla salute, grazie alla partecipazione e all’intervento dei diretti interessati: le lavoratrici e i lavoratori in fabbrica e la popolazione auto-organizzata sul territorio.
In altri termini, lo Statuto dei Lavoratori riconosceva e non censurava il conflitto sociale come inscritto nelle iniziative tese a conseguire i diritti sociali, sia a livello legislativo sia in ogni realtà data, riconoscendo implicitamente che la classe operaia e i cittadini potevano e dovevano dare un contributo vigoroso, originale e lucidamente “pensante” per la conquista del lavoro e della salute e per l’affermazione dei diritti umani.
Certamente, non tutto quanto fece seguito a quella promulgazione proseguì il percorso di affermazione dei diritti collettivi. Anzi, la destrutturazione progressiva dello Statuto ha comportato in questi 50 anni numerosi episodi di negazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Già la seconda metà degli anni ’70, caratterizzata dalla recessione economica e dalla modificazione del sistema produttivo, vide sindacati, padronato e Governi operare in sintonia per imporre la riduzione del costo del lavoro attraverso la cosiddetta “politica dei redditi”.
Successivamente, le politiche di delegificazione degli anni ’80 e deregolamentazione degli anni ’90 furono caratterizzate dalla tendenza a rinviare alla contrattazione collettiva la determinazione di una “disciplina protettiva” non più rigida, ma flessibile, con ammissione di deroghe ai precetti normativi imperativi e con conseguenti effetti negativi sulle condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori.
Attraverso questa strada viene data alla fonte negoziale collettiva-sindacale una funzione di disciplina. Per esempio, in tale direzione si collocano gli interventi legislativi sulla limitazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici (Legge n°. 146/1990).
Quest’opera restauratrice dei rapporti di forza tra classi proseguì con la rottura della concertazione sindacale degli anni 2000 e la successiva “riforma” del mercato del lavoro, fino alla modifica dell’articolo 18 dello Statuto, che alla depenalizzazione del reato di falso in bilancio – che eliminò il controllo di legalità in fabbrica sull’operato del datore di lavoro – associava la libertà di licenziare senza “giusta causa”, venendo così meno alla tutela del diritto al lavoro, premessa per la possibile negazione di ogni altro diritto in fabbrica prima e nella società poi. In primis, il diritto alla salute e alla sicurezza del lavoro, fino alla violazione della dignità, della personalità e della soggettività della lavoratrice e del lavoratore: una regressione della democrazia che – come nella stagione dei diritti, ma con intento opposto – dalla fabbrica inevitabilmente arriva fino alla società.
Fa parte della storia sociale, politica e culturale in difesa del diritto al lavoro di questi cinquant’anni la nostra associazione, Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute, la cui pratica politica, sociale, culturale e tecnico-scientifica ininterrotta da quasi cinquant’anni è documentata dalla rivista omonima, pubblicata a partire dal 1975/76.
L’atto costitutivo di Medicina Democratica risale al 1972, mentre il suo primo Congresso nazionale si tenne a Bologna il 15 e 16 maggio 1976, ma la sua maturazione è nei fatti collocabile negli anni e nel clima a cui facciamo qui riferimento: tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
Proprio grazie a quelle premesse, alla mobilitazione e alla lotta per affermare nei luoghi di lavoro i diritti sindacali e civili, fu possibile avviare la trasformazione dell’organizzazione del lavoro, partendo dall’eliminazione del ricatto del lavoro a cottimo fino alla sostituzione dei cicli e dei processi produttivi, verso migliori condizioni di lavoro, con la riduzione dei rischi e delle nocività, la bonifica degli ambienti e la riduzione dei ritmi e dei carichi di lavoro.
L’articolo 9 dello Statuto proiettava in una dimensione collettiva, più articolata, e soprattutto credibile, quel diritto all’integrità psico-fisica e morale, già previsto a livello individuale, oltre che dalla Costituzione, anche nell’articolo 2.087 del Codice Civile sulla Tutela delle condizioni di lavoro: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Indirizzo che restava oltretutto inapplicato negli aspetti di prevenzione: nei luoghi di lavoro, infatti, molti avevano compreso che il diritto alla salute delineato secondo la Costituzione precedeva e non seguiva l’organizzazione dell’impresa.
Non solo l’impresa, ma l’intera società doveva organizzarsi sulla salute dei cittadini e dell’ambiente, non sulla mitigazione della sofferenza di chi lavora e vive in ambienti degradati. Un pensiero alle origini dell’ambientalismo scientifico e culturale in Italia, che vide fra i principali fautori e protagonisti Giulio Alfredo Maccacaro, medico microbiologo, direttore dell’Istituto di Biometria e Statistica Medica e Sanitaria dell’Università Statale di Milano, uomo di profonda umanità, impegnato socialmente a fianco dei soggetti più deboli della società.
Con la fondazione di Medicina Democratica non ci si pose l’obiettivo di fondare una corporazione, né di ripetere una rappresentanza sindacale, ma si volle dar corpo e vita a un’aggregazione spontanea e autonoma di gruppi di lavoratori e cittadini auto-organizzati sul territorio, assieme a tecnici, ricercatori, giornalisti e studenti, sul modello del Centro per la Salute Giulio A. Maccacaro, costituito dal Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza (Varese).
Il gruppo di lavoro si proponeva di sviluppare metodologie di intervento in fabbrica sui temi della salute, della sicurezza e dell’ambiente, sperimentate in anni di lavoro nei molteplici campi della prevenzione dei rischi e delle nocività, della bonifica dei cicli produttivi e dell’ambiente inquinato, all’interno come all’esterno dei luoghi di lavoro, con la partecipazione di migliaia di lavoratrici e di lavoratori appartenenti alle piccole, medie e grandi fabbriche italiane, nonché a settori dei servizi, dalle banche agli ospedali, uniti nel rifiuto di scambiare i livelli di rischio con l’occupazione e gli aumenti salariali.
Fu questa la prima volta in cui si affermò e si volle rivendicare nel nostro Paese la centralità della lotta per la salute nei luoghi stessi dove si realizzavano insieme e in massimo grado la concentrazione della nocività e la spoliazione del bene primario della salute “quale estremo e preciso portato di una scienza lungamente votatasi alla organizzazione ‘scientifica’ del lavoro” (Giulio A. Maccacaro, Relazione introduttiva al primo Congresso nazionale di Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute, Bologna 1976).
Una lotta collettiva, quindi, per la salute, la sicurezza, l’ambiente salubre e i diritti umani che contestava alla radice non solo come produrre, ma anche cosa, per chi e dove produrre.
Possiamo in sintesi ribadire che il 20 maggio 1970, con la promulgazione dello Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori si posero le basi per l’affermazione nel nostro Paese dei diritti sociali che, rifacendoci all’insegnamento di Norberto Bobbio, si possono ricondurre a tre diritti fondamentali: all’istruzione, al lavoro, alla salute.
La coniugazione in Costituzione di taluni di questi diritti, come quello alla salute, come diritti dell’individuo e come interesse della collettività “fanno capire – afferma Bobbio – che ciò che caratterizza un diritto sociale a differenza di un diritto di libertà, è che esso è riconosciuto e protetto non solo nell’interesse primario dell’individuo, ma anche nell’interesse generale della società di cui l’individuo fa parte. È nell’interesse della società, infatti, che i cittadini siano istruiti piuttosto che ignoranti, occupati piuttosto che disoccupati, in buona salute piuttosto che infermi. Il riconoscimento di alcuni diritti sociali fondamentali è il presupposto o la precondizione di un effettivo esercizio dei diritti di libertà. L’individuo istruito è più libero di un incolto; un individuo che ha un lavoro è più libero di un disoccupato; un uomo sano è più libero di un ammalato” (N. Bobbio, Sui diritti sociali, in G. Modana a cura di, “Cinquant’anni di Repubblica italiana”, Torino 1996, pp. 115-124).
Enzo Ferrara
Medicina Democratica
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